Berta Isla; Javier Marías

«Abbiamo tante pretese: pretendiamo di conoscere a fondo la gente, soprattutto quella che si assopisce e respira sul cuscino accanto al nostro.»

Chi siamo? Chi sono le persone che ci stanno accanto?

In un romanzo che riprende fedelmente le grandi tematiche dell’autore – la vita, la morte, le relazioni umane, la morale, ciò che è Giusto e ciò che è Sbagliato… – Marías intesse una trama fatta di intrighi, spionaggio e “colpi di scena” (per quanto abbastanza prevedibili e quasi mai direttamente raccontati) in un contesto in realtà di moderato dinamismo che si basa prevalentemente sui ricordi e i pensieri della sua protagonista (se è così che vogliamo definirla): Berta Isla. Non fraintendete, però, non si tratta affatto di un giallo o di una semplice storia di spionaggio, al contrario: “Berta Isla” è, prima di tutto, una storia sulla vita – sull’amore forse – e sull’attesa.

Lo stile è scorrevole nonostante la sintassi ricca e articolata, con periodi spesso lunghi e avviluppati su sé stessi, à la Faulkner (che spiegò così la lunghezza smisurata delle sue frasi: «Perché non sono mai sicuro di arrivare vivo a cominciare la prossima»), con fluidi salti dalla prima alla terza persona narrante – rispettivamente Berta ed un narratore che ricompone i pezzi della vita frammentata e misteriosa di Tomás Nevinson.

Si tratta di un romanzo ricco di speculazioni filosofiche e morali, con dialoghi che hanno il furbo ruolo – quasi socratico – di sviscerare la medesima questione da punti di vista diversi, spesso opposti, per far arrivare il lettore a delle conclusioni autonome ma certamente suggerite. È anche un testo denso di citazioni – soprattutto letterarie – dove non mancano rimandi a Shakespeare (quasi inevitabile nei libri di Marías), Dickens, T.S. Eliot, Cervantes, e dove il contesto storico, quello della Storia Globale s’intende, accompagna e si intreccia con la storia personale di una madrileña – Berta Isla – e del “suo” Tomás, compagno e marito profondamente sfuggente e misterioso.

E così la storia di un amore – o meglio, di un sentimento tenace – procede tra la rivoluzione culturale e sessuale del ’68, attraversa i disordini in Irlanda del Nord degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, trapassa la guerra tra Argentina e Inghilterra per il predominio sulle isole Falkland (o Las Malvinas, in base alla lingua di riferimento), e arriva fino al 2017, anno in cui termina il racconto dell’ormai sessantacinquenne Berta.

La voce dell’autore si fa sentire, come sempre nei suoi romanzi, e a volte è Tomás, a volte Berta, altre il professor Southworth oppure il risoluto Mr. Tupra e altri personaggi “secondari” a darle un tono, a punzecchiarci, facendoci sapere cosa pensa Marías stesso di certi usi e costumi (sono soprattutto quelli moderni ad andargli meno a genio: ma niente di nuovo – e neanche di troppo bacchettone – per chi è abituato a leggere i suoi articoli su El País). La voce autoriale però non è invadente, al contrario: abbraccia l’intera narrazione tenendola insieme per darci qualcosa, alla fine, che valga la pena di conservare. Un pacchetto di emozioni ed esperienze che forse non ci suoneranno totalmente nuove o particolarmente geniali, ma non per questo meno godibili e ricche di spunti di riflessione.

Non mancano, nella narrazione, le scene conturbanti, psicologicamente struggenti addirittura, che Marías descrive con minuzia di particolari, arrivando a dissezionarle, sgretolarle, trasformandole in polvere. Quella «polvere sospesa nell’aria [che] indica il punto in cui finisce una storia», come recita un verso di T. S. Eliot che diventa un mantra per gran parte della narrazione.

E così grazie ad una storia che mischia la banalità di una vita come tante alla frenesia dello spionaggio (mai direttamente raccontato, piuttosto eluso o semplicemente accennato) ci interroghiamo sul peso dell’esistenza, sull’impronta che ciascuno di noi – gente comune e gente assolutamente insolita – lascia nel mondo.

− Certo che nessuno lo plasma da solo [il mondo], Tomás, e nemmeno insieme ad altri. Se c’è una cosa che caratterizza e accomuna gran parte dell’umanità (e con questo mi riferisco a quanti sono passati sulla terra dalla notte dei tempi), è che su tutti noi l’universo influisce senza che possiamo influire su di esso, o in misura minima. Noi crediamo di far parte del mondo, ci viviamo e ci affanniamo per modificarlo sotto qualche aspetto nel corso della nostra vita, ma in realtà siamo ’reietti dell’universo’ come dice quel celebre racconto sul tizio che sparisce dal mondo trasferendosi in una via poco lontano senza dirlo a nessuno […] Il mondo non lo alterano certo la nostra soppressione o la nostra nascita, il nostro lento percorso, la nostra esistenza, la nostra fortuita comparsa e il nostro inevitabile annullamento. E non lo altera alcun fatto, alcun crimine commesso o sventato, alcun avvenimento. Nell’insieme il mondo sarebbe lo stesso senza Platone o senza Shakespeare, senza Newton, senza la scoperta dell’America o senza la Rivoluzione francese. Non senza tutto questo insieme, ma senza uno di questi individui o eventi. Quanto è accaduto potrebbe non essere accaduto e tutto sarebbe essenzialmente uguale a com’è. O sarebbe accaduto in un altro modo, per altre vie o girandoci intorno, o più tardi, o con altri protagonisti. Non importa, non può mancarci quello che non è successo, ti assicuro che l’europeo del dodicesimo secolo non avvertiva la mancanza del Nuovo Continente, non sentiva la sua inesistenza come un’amputazione o una perdita; lo sarebbe per noi dopo cinquecento anni che lo conosciamo.

Le vite di Berta Isla e Tomás Nevinson, testardamente legate, sono l’una l’opposto dell’altra: una – quella di Berta, novella Penelope che attende il suo Ulisse – quasi passiva ma paradossalmente autonoma, fatta di interminabili attese e profonda caparbietà; l’altra – quella di Tomás – frenetica e manipolata, incapace di definirsi, dolorosamente frammentata. Vite, entrambe, che sembrano parentesi d’esistenza, che passano e non passano al tempo stesso, animando relazioni che a guardarle da vicino ci sembrano tanto perverse quanto normali e comprensibili.

Marías dipinge un universo di contraddizioni di cui non è semplice parlare – almeno  non senza fare spoiler – che sa riversarsi generosamente nella testa del lettore pronto ad accogliere 542 pagine (488 nella traduzione italiana) che scorrono al tempo stesso come fossero cento e come se si dilungassero per una vita intera, in un’infinita riflessione sulla difficile arte di attendere le persone amate e di rispettarne i segreti, sull’irrilevanza e l’intercambiabilità dei singoli individui e sulla precarietà dell’esistenza.


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