Imparare a perdere: perché non è una tragedia bocciare un esame o prendere un brutto voto

«Tests are never just tests.
They tap into all sorts of deeper issues too.»

Quando alla maturità ho visto di essere passata con 94/100 mi è preso un colpo. Ero candidata al 100, avevo preso il massimo in tutte le prove (tranne in quella di matematica, in cui avevo comunque ottenuto un voto decisamente più alto di quanto mi aspettassi) e per questo avevo diritto a dei punti bonus che mi avrebbero tranquillamente portata nel Regno dei Perfetti. Invece niente 100, e niente Regno. A quanto pare la mia media del triennio non era stata ritenuta sufficientemente alta per l’assegnazione di quei bonus, e neanche la condotta mi aveva aiutata. Ero polemica, nei temi scrivevo di politica e religione e filosofia; a lezione facevo sempre domande e la maggior parte dei professori mi credeva semplicemente una che aveva voglia di far perdere tempo. Ovviamente non era così, ma sfortunatamente sulla mia strada ho incontrato perlopiù insegnanti che avevano come unico obiettivo quello di finire il programma il prima possibile, possibilmente senza interruzioni. In ogni caso la presi sul personale. Mi sembrava un’ingiustizia ma, ancora di più, mi sembrava semplicemente di aver fallito. E non semplicemente di aver fallito come studentessa, ma proprio come persona.

Per un risultato (buono) del genere, vi chiederete? Sì, per un risultato che non si è dimostrato all’altezza delle mie stesse aspettative (o di quelle di chi mi stava intorno).

Negli anni successivi – soprattutto il primo all’università – ho cercato in ogni modo di evitare l’argomento “voto di maturità”, e quelle tre volte in cui mi è stato chiesto ho risposto, paonazza, vergognandomi come una ladra. Ma vergognandomi di cosa, poi?

Eppure, a quanto pare, non sono l’unica a cui è capitato di vivere questa realtà fatta di vergogna per alcuni risultati – seppur spesso anche abbastanza buoni – e fallimenti ottenuti.

E il pattern, purtroppo, si è ripetuto negli anni: non mi ha di certo abbandonata dopo il saluto ai banchi di scuola. Finito il liceo, prendere un 30 e lode all’università era praticamente un dovere morale, prendere un 25 una vergogna, non parliamo dell’oblio in cui ho cercato di nascondere i veri e propri fallimenti, le bocciature. Cercavo delle scuse – “quel giorno stavo male, avevo il mal di testa, il mal di denti, la febbre, la tubercolosi” – qualsiasi cosa per giustificare il mio non essere stata all’altezza della situazione, il mio non aver retto il confronto coi risultati di qualcun altro.

Le volte che ho letto sul giornale del suicidio un* student* ho pensato: “Ci si può davvero uccidere per dei voti?”. Be’ a quanto pare sì. Sì perché siamo cresciuti – almeno la mia generazione – in un contesto che ha sempre misurato coi voti scolastici il valore personale.

Certo, non sto dicendo che la scuola, l’università e gli esami non siano importanti. Al contrario, sono importantissimi, e io li ho sempre presi con profonda serietà. Ma è necessario considerarli per quello che sono: delle parentesi, dei giudizi spesso fin troppo soggettivi dati da esseri umani, come noi, assolutamente fallibili. Esseri umani che si possono confondere, che possono aver avuto una brutta giornata o addirittura una brutta settimana prima di valutarci. Lo studio, gli esami e i voti ci servono, certo – ci insegnano la disciplina dell’apprendimento e la messa in pratica di nozioni che altrimenti vagherebbero “inutili” nella nostra mente – ma non devono definirci come persone.

No, non devono, e andando avanti nella vita mi risulta sempre più chiaro, addirittura fondamentale, qualcosa da ripetere ad alta voce e ai quattro venti, se necessario: i fallimenti non ci definiscono in alcun modo, tantomeno quelli scolastici e universitari.

E così quando ieri mi sono ritrovata a leggere (vuoi perché gli ultimi due esami che mi mancano per laurearmi mi stanno portando all’esaurimento, vuoi perché è un periodo un po’ così per tutti) un capitolo di un libro che ho acquistato presa da un profondo senso di fallimento personale – How to Fail di Elizabeth Day – ho provato infinita gratitudine nel ritrovare nelle parole della Day un po’ di quello che ho maturato nei miei lunghi anni di esami e valutazioni.

Nel suo intervento dedicato al fallimento degli esami – How to Fail at Tests – l’autrice riflette su alcuni punti interessanti:

Il gran numero di esami a cui siamo sottoposti durante il periodo della nostra istruzione, innanzitutto, fa sì non solo che sia possibile bocciarne alcuni, ma che sia addirittura molto probabile statisticamente.

Inoltre, quando ci rendiamo conto – o semplicemente ci sembra – di non essere bravi in qualcosa, che facciamo? L’impulso standard dell’essere umano è di lasciar perdere, di non provarci nemmeno (se ripenso a certi compiti di matematica a scuola…). Perdiamo la motivazione, insomma, uno dei pochi elementi che potrebbe, invece, fare la differenza.

Prendere sempre buoni voti, poi, può essere un’arma a doppio taglio: da una parte è un buono stimolo per sentirsi in qualche modo infallibili – è un balsamo per il nostro ego – ma dall’altra può diventare una dipendenza malsana che si riversa su di noi come un’onda anomala quando arriva l’inevitabile momento di fallire. Perché sì, fallire è assolutamente inevitabile, prima o poi. E non è mai consigliabile costruire la propria autostima – per rubare le parole dell’autrice – «sulle fondamenta traballanti del merito accademico» (la traduzione è mia).

Anche perché la vita “adulta”, la vita dopo la scuola e l’università, non ti dà un voto per ogni cosa che fai. Certo, è sempre raccomandabile impegnarsi e far bene quel che si fa, ma non ci sarà mai nessuno a misurare in voti quanto siamo stati bravi a pagare le bollette per tempo o a non mandare a quel paese il furbo di turno che ti supera in fila al supermercato.

I voti stessi – come ho ricordato poco fa – vengono assegnati da esseri umani fallibili, da persone che oltre ad aver avuto una brutta giornata potrebbero semplicemente non essere d’accordo con quanto affermiamo (e non avere, purtroppo, la lucidità di accettare il confronto).

La vera vittoria scolastica e accademica – suggerisce la Day – è non lasciarsi definire dall’esito di un esame. È ricordare a noi stessi che la nostra esistenza è separata dalle correzioni ai margini di un foglio protocollo, e che la maggior parte della vita è semplicemente un caos arbitrario di colpi di fortuna ed eventi casuali (e di bravura, certo) a cui nessuno assegnerà mai un voto.

A volte – conclude l’autrice – non arrivare ai risultati sperati o non raggiungere la meta che ci eravamo prefissati ci costringe ad affrontare l’umiliazione di un esame fallito che, se siamo fortunati, può farci comprendere che non siamo mai i voti che prendiamo, per quanto buoni o brutti che siano. E anche questa è una forma di successo, no?

Allora la prossima volta che affronterete un esame universitario o un compito scolastico provate a ricordarvi chi siete davvero, che cosa vi interessa e cosa vi appassiona, indipendentemente dai voti presi e da quelli che pensate di meritare.


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